E’ stato presentato il 1° dicembre a Roma il nuovo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. In questi lunghi anni di recessione l’Italia si è mossa prevalentemente lungo linee meridiane, attraverso processi a bassa interferenza reciproca, con l’effetto di disarticolare le connessioni che avvicinano le varie componenti sociali. La contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi sulla ripresa di capacità competitiva. Così, soprattutto nell’ultimo anno tanti settori hanno accelerato in fatturato e produttività: dall’agroalimentare all’automazione, dai macchinari alla nautica e all’automobile, dall’ingegneria al design. Si sono tuttavia indebolite le funzioni selettive esercitate dalla politica industriale e di investimento, con uno spostamento verso interventi a pioggia con i bonus o i crediti di imposta, e con programmi orientati alla rimodulazione lineare della spesa più che al sostegno del tessuto imprenditoriale. Si sono quasi azzerate le funzioni di innervamento da parte delle amministrazioni pubbliche dei principali processi di miglioramento tecnologico, con un ritardo nella digitalizzazione della macchina burocratica divenuto patologico, con una inefficiente dispersione dei tanti progetti di informatizzazione, con una preoccupante incapacità di fermare investimenti finiti in un vicolo cieco e con un quadro via via più incerto su come tradurre in passi concreti il riallineamento all’agenda europea. Le riforme dell’apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, il rammendo delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono rimaste prigioniere nel confronto di breve termine. Con l’inevitabile conseguenza che, non avendo sedi dove portare interessi, identità, istanze economiche e sociali, gli stessi soggetti della rappresentanza proseguono il loro arretramento lasciando agire il frastuono comunicativo di presenza dei leader.
Il Censis sottolinea come il nostro sia di fatto un Paese invecchiato, che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti. La società appare sconnessa, sfilacciata, a scarsa capacità d’interazione. La ripresa registrata in questi ultimi mesi sembra indicare, più che l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del precedente.
L’innovazione tecnologica in questi ultimi anni è stata il fattore propulsivo dominante. La polarizzazione del lavoro determinata dalla domanda sbilanciata verso professioni intellettuali ad alta competenza o, per contro, verso servizi alla persona a bassa specializzazione professionale è una componente strutturale del progresso industriale dettato dagli stessi processi d’innovazione. In questo quadro la fiducia verso il futuro cresce tra chi ha saputo stare dentro le linee di modernizzazione, molto meno invece tra chi subisce la fragilità del tessuto connettivo e di protezione sociale. Lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita. Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo senza sostituzione, di quell’attesa del tempo che verrà che spinge ad affrettarsi senza voltarsi indietro. Oggi il nostro futuro si prepara sul binomio tecnologia-territorio, sulla preparazione all’innovazione con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di rappresentanza politica ed economica.
La politica invece ha mostrato il fiato corto, nell’incessante inseguimento di un quotidiano “mi piace”, spesso nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori pubblici sono rimasti imbrigliati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla politica industriale, dall’agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro. Se chi ha responsabilità di governo e di rappresentanza si limita ad un gioco mediatico ad effetto il Paese rischierà di procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale.