Lasciata Genova, culla del calcio in Italia, decidiamo di scendere giù verso la città che aveva il suo calcio, prima del football: Firenze. Le sfide di quartiere del calcio in livrea (il calcio fiorentino) si svolgevano nel cuore di piazza di Santa Croce e ancora oggi la rievocazione dell’antica disciplina conserva un fascino intramontabile.
Per il calcio moderno lo sviluppo in città aveva bisogno della forza propulsiva di una politica interessata ad usare lo sport e il calcio come veicolo di propaganda e di eccellenza. I tempi e le opere si concretizzano, non a caso, in pieno periodo fascista.
Artefice principale dell’opera prima è il Marchese Luigi Ridolfi da Verrazzano: segretario provinciale del PNF, deputato e appartenente ad una delle famiglie più antiche della città. Medaglia d’argento al valore militare, per meriti bellici ottenuti durante il primo conflitto mondiale, futurista, aderì da subito al fascismo e cominciò, dagli anni venti, ad occuparsi di sport, rappresentando un esempio illustre di vero mecenatismo.
Siamo stati abituati, nei precedenti percorsi, a scoprire come ville, parchi e luoghi di aggregazione spesso fossero i luoghi principali dove realizzare i primi passi verso uno sport inteso in una sua forma professionistica. E Firenze, in parte, non sfugge a questa regola: il parco delle cascine, infatti, era luogo attrezzato e destinato a molteplici manifestazioni sportive. Il calcio in particolare, all’interno del parco, occupava il prato del Quercione, dove i primi club calcistici della città si misuravano, almeno fino al divieto definitivo proveniente da Palazzo Vecchio nel 1917. Immediatamente, o quasi, entra in gioco la volontà di destinare altrove le attività sportive in città, e la candidatura della zona di Campo di Marte, dopo un primo tentativo di restare nei pressi del Parco, si mostrò ben presto idonea al fine di ospitare questa ambiziosa richiesta della città. Già sede di celebrazioni fasciste e di esercitazioni militari, oltre a spettacoli circensi o itineranti di vario genere (tra questi addirittura uno show realizzato dal celeberrimo Buffalo Bill a fine ottocento), fu prescelta per il nuovo stadio di Firenze, visto che ben si poteva accostare e accomodare vicino ai già esistenti Palazzetto dello Sport e vecchio campo Polisportivo militare.
Ridolfi conosce bene e frequenta quella zona, da militare e da sportivo. La sua partecipazione e la sua vocazione naturale per lo sport daranno vita alla sua carriera dirigenziale che lo porterà ad essere Presidente della FIDAL (dal 1926 al 1942 e dal 1956 al 1958) e per un breve periodo anche della FIGC (1942-1943), ma soprattutto della Fiorentina A.C., nata il 28 agosto 1926 dalla fusione della Polisportiva Giovanile Libertas e il Club Sportivo Firenze.
Interessante e curioso scoprire che la polisportiva Libertas utilizzava un impianto pre-esistente ed usurato in via Bellini, primo modello di legno e mattoni eretto dalla famiglia Pontello ( che sarà proprietaria della Fiorentina stessa negli anni ottanta per un decennio, concluso per altro con la clamorosa cessione di Roberto Baggio alla Juventus), dove c’era spazio per una piccola tribuna capace di accogliere 3000 spettatori, spogliatoi e una palestra per i soci. In verità Firenze e i suoi sportivi avevano bisogno di localizzare e fidelizzare una zona interamente riservata alle discipline più in voga.
L’accordo trovato tra il podestà Giuseppe Della Gherardesca e le autorità militari, consentì la destinazione d’uso di Campo di Marte. La progettazione dello stadio di Firenze venne affidata ad una firma oggi famigerata, ma all’epoca ancora poco coinvolta in opere di questa dimensione: l’architetto Pier Luigi Nervi, coadiuvato dal prof. Gioacchino Luigi Mellucci. Di fatto è questa dello stadio fiorentino la prima opera che darà lustro e notorietà all’allora poco meno che quarantenne architetto di Sondrio. Ridolfi e Nervi si conobbero precedentemente in occasione dell’opera per la tribuna dello stadio riservato all’atletica leggera per l’Assi Giglio Rosso, lungo viale dei Colli, commissionata dal marchese.
Nervi, così, passerà agli onori della cronaca e resterà fino ad oggi indissolubilmente legato al progetto romano del Flaminio, (ma tutto questo si realizzerà solo cinque lustri dopo l’opera fiorentina di cui stiamo trattando).
Firenze, 1929: Ridolfi sceglie dunque Nervi per soddisfare la sua futuristica visione del polo sportivo della città. L’architetto valtellinese realizzerà e riassumerà la concezione degli spazi e dei luoghi in maniera assolutamente moderna, aderendo completamente alla svolta dinamica e tecnologica voluta dalla politica in vigore.
La prima vera svolta risiede nell’abbandono dei classici modelli schematici dei primi impianti: via il trionfalismo romano dello stadio Nazionale o dello Stadium torinese. La forma rivoluzionaria dell’impianto prevede uno schema a “D”, forma asimmetrica, eludendo gli schemi classici, privilegiando, come vedremo la necessità di valorizzare funzionalità interna ed armonia con il paesaggio: il cemento armato a rafforzare l’idea di essere al passo dei tempi e delle necessità, la Tribuna riparata da una pensilina e la Torre Maratona (alta oltre 50 metri) a sovrastare sulla totalità dello stadio, per dare vita ad un illuminato e individuabile riferimento del Polo sportivo e della città fascista.
Progettato per dare una casa alla neonata Fiorentina, tra il 1930 e il 1932,in due lotti distinti venne edificato in previsione degli imminenti Mondiali di calcio del 1934. Rispetto al progetto originario, le novità saranno la concezione delle curve come argine ai venti di tramontana che investivano la zona e disturbavano le fasi di gioco e la realizzazione della Torre Maratona, vero simbolo e elemento di riconoscibilità e distinzione dello stadio.
L’impianto fu intitolato a Giovanni Francesco Berta, militante fascista caduto durante degli scontri in una manifestazione socialista.
Nonostante la modernità e la linea dinamica e nuova della struttura, la spesa destinata per la realizzazione riserverà parecchie sorprese per i costi incredibilmente contenuti se paragonati agli impianti contemporanei, come lo stadio di Bologna (meno della metà) o il mitico Wembley di Londra, costato intorno ai settanta milioni contro gli appena sei milioni e ottocentomila destinati al complesso fiorentino. Gran motivo di vanto la ricercata e riuscitissima individuazione di un manto erboso per il campo di eccezionale resa, grazie alla mescolanza di terre vegetali e semenze , per rendere più efficace il gioco della squadra di casa. Particolare cura ci fu per il sistema di drenaggio, visto l’inserimento, sotto il terreno, di uno strato doppio (spesso due metri) di pietre prelevate dal fiume Arno, che ancora oggi lo rendono tra i migliori del continente.
A testimonianza della bellezza dello stadio e della sua concezione, le parole di uno dei più grandi allenatori del tempo, l’austriaco Hugo Meisl che lo definì “il migliore stadio del mondo per estetica e funzionalità e per l’accoglienza riservata agli spettatori, degno del nome e dalla storia della città”.
L’accesso agli spalti metteva in mostra un altro segno di grande innovazione: nella tribuna Maratona (il settore scoperto) l’ingresso era accessibile dalla zona più alta e non dal punto più basso e la stessa Torre omonima, esile e altissima, vetrata a cristalli, illuminata, aveva al suo interno un ascensore che rendeva funzionale ed efficiente il sistema, oltre a garantire il ruolo di faro per tutta la città.
Dal 1929, anno di inizio progetto al 1932, anno del completamento, lo stadio Berta rappresentava un modello di vera rivoluzione architettonica che sarà ripresa per la nascita di molti impianti europei e sudamericani.
Lo stadio non subì più modifiche fino all’occasione dei Mondiali di calcio del 1990, sebbene il successo di pubblico ottenuto negli anni ne richiedesse un importante ampliamento. Ridolfi e Nervi ancora, a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, avrebbero voluto raggiungere il raddoppio della capacità , studiando un secondo ordine di gradinate scoperte da sovrapporre alle tribune esistenti. Poi addirittura si pensò a triplicare per arrivare a 120.000 spettatori, ma fu la morte del marchese Ridolfi a frenare gli entusiasmi e i progetti. Per quanto folle potesse sembrare l’idea, in realtà erano i fatti a parlare chiaro: 84000 biglietti venduti per Italia-Inghilterra del 18 maggio 1952 (1-1 gol di Amadei per gli azzurri), per un totale di 95000 persone presenti tra inviti, forze dell’ordine e cronisti, oppure il caso del cedimento di una balaustra della tribuna Maratona in occasione di un Fiorentina-Juventus (22/12/1957 2-1 per i padroni di casa) con centinaia di feriti, alcuni gravi, ma senza tuttavia vittime.
Episodi estremi che danno la dimensione del successo della costruzione e soprattutto del raggiungimento delle maggiori aspettative di chi lo aveva fortemente voluto realizzare.
Nel 1989 si darà inizio ai lavori, senza tuttavia sospendere o modificare il calendario delle partite casalinghe della Viola, che svolgerà regolarmente il campionato 1989-1990 nel proprio stadio. Cambierà destinazione d’uso (esclusivo per il calcio), adeguerà definitivamente la sua capienza (attualmente intorno ai 47.700) e comporterà l’abbassamento del livello del campo di gioco, con la conseguente eliminazione della pista rossa di atletica.
Nel corso della sua esistenza, abbandonerà la nostalgica nomenclatura, per essere poi riconosciuto come “Stadio Comunale” prima, e poi, dal 1993 sarà intitolato ad Artemio Franchi( nome ancora in uso), dedicato al dirigente segretario della Viola negli anni cinquanta e poi altissimo dirigente nazionale, presidente di FIGC e poi presidente UEFA fino alla sua scomparsa nel 1983. Nato come culla del calcio moderno e creato per essere la casa della Fiorentina, l’Artemio Franchi oggi conserva la sua destinazione e la sua missione, non solo ospitando le gare dei Viola, ma essendo il quartier generale del club e dei suoi dirigenti.
Campo di Marte polo dello sport a Firenze, come volle il marchese Ridolfi ( a cui oggi è intitolato l’impianto d’atletica sottostante) e dove Nervi avvicinò le sue conoscenze e applicazioni all’impiantistica sportiva.
Un raro caso di modernità e tradizione che ha saputo conservare la propria identità e il proprio servizio allo sport e all’urbanistica.