Presentata a Roma una inchiesta sulla trasmissione della cultura nell’era digitale. La ricerca ha il fine di misurare l’evoluzione di questi fenomeni, al di là delle enfatizzazioni e del grido d’allarme lanciato da più parti: l’intento è stato quello di arrivare a una “presa di realtà”, pervenire a un quadro conoscitivo effettivo e puntuale di cosa stia cambiando.
L’inchiesta sul sapere nell’era digitale, realizzata dal Censis in
collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, ha come universo di riferimento gli italiani acculturati.
I libri restano prioritari quando ci si applica alla letteratura (sono utilizzati da più della metà di chi vi si dedica); sono prevalenti in campi del sapere come la storia e la geografia (anche se in questo caso Wikipedia, l’enciclopedia online redatta dagli utenti per gli utenti, viene usata da poco meno di un quarto del campione); si collocano alla pari con i siti internet per gli studi di economia, scienze sociali e diritto; diventano minoritari per le scienze naturali, la fisica e la matematica (in questo caso la metà degli interessati si spartisce tra siti web e motori di ricerca online); il loro impiego
si fa ridottissimo per gli approfondimenti nei campi della tecnologia e dell’informatica (il 2,6% usa i libri, l’87,7% internet).
E il libro cartaceo è ancora il “dispositivo” del sapere più utilizzato con riferimento a diversi generi editoriali: per leggere romanzi, racconti, poesie (78,7%), saggi (71,9%), testi scolastici e universitari (67,1%), opere illustrate (59%). Ma ecco comparire la rottura di paradigma: per “sfogliare” guide turistiche si usa molto il pc (29,1%); ancora di più per consultare una enciclopedia (il 60,6% utilizza il pc, il 7,4% adopera il tablet, il 5,8% lo smartphone, contro il 18,7% che in questo caso usa testi cartacei); e tra chi interroga il dizionario, più della metà (il 56,2%) lo fa attraverso il video del computer, ben più di quanti (il 21,8%) usano ancora il vocabolario cartaceo. Il nodo è nel rapporto fiduciario che si instaura con le diverse fonti e con i diversi mezzi. Benché vivano a pieno titolo nell’era della disintermediazione digitale, gli italiani acculturati ripongono una grandissima stima nel lavoro delle case editrici. L’affidabilità accordata allo “strumento” libro è molta (80,3%) o abbastanza (19,2%): praticamente, nessuno considera i libri una fonte non degna di fiducia.
La stessa credibilità viene riconosciuta alle enciclopedie: il 66,4% ne ha molta fiducia e il 26% abbastanza, per un totale di giudizi favorevoli prossimo al 100%. Mentre sono solo “abbastanza” credibili i siti web (69,1%) e i motori di ricerca (66,1%); sono per lo più “poco” affidabili i social network (54,8%), i blog e i forum di discussione online (54,3%) ‒ e lo sono “per niente” rispettivamente per il 29,9% e per il 12,4% del campione ‒ mentre l’enciclopedia online Wikipedia, infine, gode della massima fiducia solo del 16,3% del campione ‒ ma è “abbastanza” affidabile secondo il 59,5%
Apocalittici o integrati?
Parafrasando questa famosa definizione di Umberto Eco, a proposito della televisione, la rivoluzione digitale, con la diffusione pervasiva di internet e delle sue innumerevoli applicazioni, ha prodotto profondi cambiamenti non solo nelle nostre abitudini quotidiane e nei più disparati comportamenti individuali e collettivi, ma anche nel campo della cultura, in ragione dell’uso ormai comune delle nuove tecnologie anche per la produzione e la
trasmissione del sapere. Il cambiamento di scenario ha stimolato un
inesausto dibattito tra intellettuali ed esperti dell’apprendimento sugli effetti di una simile trasformazione già oggi misurabili sugli stili conoscitivi e sui livelli culturali generali della popolazione e sulle ricadute ipotizzabili nel prossimo futuro.
C’è anche da chiedersi se non sia in atto una vera e propria mutazione antropologica legata ai processi di disintermediazione digitale penetrati anche nel campo della formazione della conoscenza:
‐ alla prassi della disintermediazione digitale corrisponde la
propensione all’aggiramento dei tradizionali “garanti del sapere” (i
maestri, gli autori, le biblioteche)?
‐ è concreto il rischio che, facendo ciò, si finisca per soprassedere ai
doverosi “controlli di qualità” delle fonti e si finisca per ridimensionare
l’autorità di figure fondanti del sapere, come l’insegnante, e di
istituzioni culturali e agenzie formative, come la scuola e la casa
editrice (che diventerebbero le “vittime” dirette dell’affermazione della prassi della disintermediazione digitale nel campo della cultura)? Per comprendere i processi in atto e le mutazioni degli stili conoscitivi che si stanno compiendo bisogna portarsi fuori dallo schema di contrapposizione oggi esistente tra “apocalittici” e “integrati”. Non si tratta di riproporre le tesi degli apologeti di internet opposti ai detrattori del web, con i primi che enfatizzano le “magnifiche sorti e progressive” legate alle tecnologie digitali e l’intelligenza collettiva che si sviluppa grazie alla rete,
contro i secondi, per i quali Google ci rendi stupidi, Facebook distrugge la nostra privacy, Twitter frantuma la capacità di attenzione e approfondimento; con i tecno‐entusiasti che elogiano la mole di contenuti che le nuove tecnologie digitali fanno circolare, considerandolo un segnale di democratizzazione della cultura, e gli scettici che invece criticano il web condannando la superficialità dei suoi contenuti e ravvisando in esso preoccupanti avvisaglie di una regressione culturale.
Allo stesso tempo, non si possono ignorare le differenze intrinseche
nell’uso di una tecnologia di produzione culturale (il libro, ad esempio) o di un’altra (come il web). Il mezzo di apprendimento e di diffusione del sapere impiegato non è neutrale, proprio in ragione delle sue peculiarità tecniche in grado di attivare a livello individuale determinate facoltà di tipo cognitivo o emotivo anziché altre; e anche per le sue specificità in termini di capacità tecnica di immagazzinare e trasmettere nozioni e informazioni (le pagine di un libro piuttosto che i gigabyte di memoria dell’hard disk di un
computer o, ancora di più, di un server remoto), di modalità di
consultazione e fruizione (la lettura su carta o la navigazione ipertestuale in internet, che può includere il godimento di materiale audiovisivo), di efficacia nel raggiungere i diversi utenti e pubblici di riferimento (è il tema dell’accessibilità del mezzo), di costi dell’impiego (sia di tempo che di denaro).
Con ciò cambiano anche le risorse stesse della cultura: ora i testi diventano “aperti”, cioè non più completi e definitivamente compiuti, protetti, vincolati a una inequivocabile imputazione di responsabilità dell’autore, bensì continuamente soggetti a possibili integrazioni, revisioni, manipolazioni. Il che implica una metamorfosi del concetto stesso di autore, che ora diviene plurimo e anonimo.
La maggioranza degli italiani è utente regolare di internet. Il web è diventato tutor e “oracolo” personale?
Intanto in Italia gli utenti regolari di internet aumentano anno dopo anno e nel 2015 sono arrivati al 63% della popolazione di 16‐74 anni. Certo, con persistenti differenze geografiche: il 69% al Nord‐Est, il 68% al Nord‐Ovest, il 66% al Centro, il 55% al Sud e nelle isole. Certo, meno che negli altri Paesi europei, dove si arriva a una incidenza degli utenti del web superiore al 90% in Lussemburgo, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, e ci si attesta al 90% nel Regno Unito, all’84% in Germania, all’81% in Francia.
Ma è impressionante il grande balzo in avanti della spesa delle famiglie italiane per acquistare dotazioni tecnologiche. Tra il 2007 (l’anno prima dell’inizio della crisi) e il 2014, la voce “telefonia” ha più che raddoppiato il suo peso nelle spese degli italiani (+145,8%), mentre nello stesso arco di tempo i consumi complessivi flettevano del 7,5% e la spesa per l’acquisto dei libri crollava del 25,3%. La quota di possessori di smartphone abilitati alle connessioni mobili è lievitata di 10 punti percentuali solo nell’ultimo anno
I simboli contemporanei della cultura: dalla biblioteca a internet
Si capisce, già da questa sequela di dati, che c’è una consapevolezza
piuttosto diffusa in merito a cosa c’è di buono e di meno buono nelle nuove tecnologie digitali, il cui utilizzo non si lesina, ma solo all’interno di questa cornice di attribuzione funzionale e valoriale, senza sprovveduti slanci nel vuoto. Lo si capisce anche esaminando quali sono le figure simbolo che, secondo l’opinione del campione, incarnano oggi più di tutte il valore della cultura.
L’immaginario della popolazione italiana acculturata risulta composto da riferimenti simbolici alti, come la scuola e la biblioteca, contemplando però con equilibrio anche il nuovo ruolo del web:
‐ la figura più rappresentativa della cultura è lo scienziato (viene indicato al primo posto dal 22,2% del campione), segno che il sapere scientifico ha assunto nel tempo una maggiore considerazione rispetto alle discipline umanistiche;
‐ ma segue subito dopo l’intellettuale (19,3%), poi il filosofo (15,7%) e la figura emblematica della trasmissione della conoscenza, cioè il maestro, l’insegnante (14,9%);
‐ le figure umanistiche, come lo scrittore (10,9%), il poeta (2,8%) o
l’editore (2,8%), vengono successivamente.
Figure che oggi incarnano più di tutte il valore della cultura
Tra i simboli contemporanei della cultura, internet (indicata dal 27,6%) e la biblioteca (26,1%) si collocano in cima praticamente a pari merito. In misura pressoché analoga, il liceo e l’università sono considerati tutt’oggi luoghi simbolo del sapere, secondo l’opinione di un quarto dei rispondenti (25,8%). Il favore accordato a Wikipedia è tiepido (appena il 4,7%) anche nelle fasce d’età più giovani. E il computer viene considerato uno strumento incapace di per sé di veicolare contenuti culturali (solo il 3,2% lo pone al vertice della classifica dei luoghi del sapere).
L’equilibrio di giudizio sulle tecnologie digitali
Emerge, insomma, un grande equilibrio di giudizio sulle tecnologie digitali, che si riscontra anche in un’altra serie di considerazioni raccolte:
‐ l’opinione che la fruizione culturale in internet si basa su una logica ipertestuale, con l’arricchimento di link ad altri documenti e a contenuti audiovisivi, è condivisa dal 95,8% del campione;
‐ così come è largamente diffusa (89,2%) la consapevolezza che la rete è un gigantesco archivio di informazioni liberamente accessibile da chiunque e consultabile con facilità;
‐ una quota molto ampia del campione (l’88,1%) è convinta che buona parte del successo della rete dipenda dal fatto che oggi si ha sempre meno tempo a disposizione, quindi internet viene percepita come una “enciclopedia” aperta a tanti contributi, ricca di stimoli anche sensoriali, continuamente aggiornata e consultabile rapidamente;
‐ l’85,8% dichiara che spesso il risultato delle ricerche in internet non è quello che ci si aspettava all’inizio e apprezza quindi l’“effetto
ritenendo utile seguire il flusso dei documenti online per
fare nuove scoperte che all’inizio non si sapeva di voler conoscere;
‐ il 66,7% apprezza l’aspetto relazionale della rete, cioè il fatto che
l’approfondimento sul web dei propri studi e delle proprie passioni
culturali può diventare l’occasione per socializzare con persone che
coltivano gli stessi interessi;
‐ il 59,6% ritiene che in internet il sapere si formi con i contributi alla pari di tutti (l’esempio classico è Wikipedia), senza un ordine gerarchico basato sulla sequenzialità delle nozioni e sull’autorità delle fonti tradizionali;
‐ d’altra parte, vi è una profonda consapevolezza, che talvolta sconfina nello scetticismo e nella diffidenza, riguardo i limiti di affidabilità delle fonti che si trovano online, se il 92,7% degli intervistati ritiene che non sempre si può essere sicuri dell’affidabilità dei contenuti che si trovano in internet (spesso non si sa neanche chi è l’autore dei documenti);
‐ a ciò si aggiunge un giudizio di superficialità della conoscenza che ci si forma in rete, per cui secondo il 70,2% il web non basta e, se si vuole approfondire, bisogna leggere i libri;
‐ in più, per il 53,6% la lettura sullo schermo limita intrinsecamente la capacità di apprendimento e di riflessione intellettuale;
‐ frammentarietà delle nozioni, sovrabbondanza di contenuti,
disorientamento dell’utente sono altre considerazioni negative sulla
rete come strumento di conoscenza che accomunano più della metà
degli intervistati: per il 54,8% le tante risorse disponibili in internet
rendono tutto frammentato, non si riesce a concentrarsi, ci si distrae
continuamente; per il 51,9% in internet si trovano troppi contenuti, per cui è difficile selezionare quelli davvero interessanti e utili, tanto da poter rimanere disorientati;
‐ così, solo il 23,5% crede che oggi, grazie a internet, si possano ad
esempio scrivere tesi di laurea senza dover consultare libri o entrare in una biblioteca;
‐ in definitiva, solo per un residuale 6,5% del campione le risposte che si trovano in internet sono esaustive e non c’è bisogno di verificarle altrove.
Gli effetti della disintermediazione digitale: cultura on demand e bibliografia personalizzata
Insomma, non si può rinunciare alla cultura codificata e strutturata data dai libri. Ma, allo stesso tempo, gli effetti positivi della disintermediazione digitale vengono rinvenuti nella possibilità di produrre una “cultura on demand” attraverso la costruzione di una bibliografia multimediale personalizzata.
Il fenomeno della disintermediazione digitale è considerato positivo
complessivamente dal 79% degli italiani laureati utenti di internet: in particolare, il 49,7% perché così la cultura diventa un bene alla portata di tutti, al di là delle differenze sociali, economiche, geografiche; per il 29,3% perché permette di approfondire i temi che interessano risparmiando tempo e denaro. Solo per il 17,9% del campione con l’uso di internet come strumento culturale si pone il rischio di manipolazione e omologazione, e appena il 3,1% teme il tramonto del benefico rapporto tra allievo e maestro
Che fine farà il libro, a questo punto?
Complessivamente, per il 74,4% del campione il libro di carta non corre il pericolo di venire sostituito dalla rete. In particolare, il 67,1% ritiene impossibile che ciò accada, perché niene come il libro stimola l’attivazione delle facoltà intellettuali. Per il 7,3% la
spiegazione è ancora più radicale e si ricollega alla convinzione che la cultura che ci si forma attraverso internet sia effimera. All’opposto, solo un quarto del campione (25,6%) è convinto del contrario, cioè che il libro sia in pericolo: perché gli strumenti digitali sono più efficaci della carta stampata nella trasmissione del sapere (6,3%) e perché le nuove tecnologie evolveranno ulteriormente come strumento di conoscenza, e questo
determinerà la scomparsa del libro (19,3%).
Cinque profili tipologici della domanda di cultura nell’era digitale
Per tirare un bilancio di sintesi di quanto fin qui descritto, si possono enucleare cinque profili tipologici degli italiani acculturati di fronte alle forme del sapere nell’era digitale, cinque idealtipi ricavati dalla realizzazione di una cluster analysis:
1. il primo gruppo è formato dai tradizionalisti apocalittici (sono il 17,4% del totale), caratterizzati da un uso intenso dei media tradizionali (libri cartacei, enciclopedie e dizionari) e da una forte diffidenza nei confronti dei media digitali, percepiti come sostanzialmente estranei alle logiche culturali e portatori prevalentemente di effetti dannosi;
2. il secondo gruppo è quello degli opportunisti equilibrati (misurano il 20,3% del campione), che riconoscono un primato al lavoro editoriale e ai libri, con i quali instaurano un rapporto di stretta confidenza, ma al tempo stesso mostrano un positivo atteggiamento di apertura verso il mondo digitale e verso le nuove tecnologie di produzione culturale, puntando con abilità all’utilizzo integrato dei diversi mezzi in base alle specifiche esigenze e anche alle oggettive opportunità offerte dal web.
La disinvoltura con la quale ricorrono in modo alternato alla forma libro e all’ipertestualità della rete fa perno sulla buona capacità di decodifica delle fonti che dimostrano di possedere: sono i protagonisti di un articolato lavoro di arbitraggio individuale nell’uso dei diversi mezzi a disposizione operato in base ai propri interessi, alle esigenze da soddisfare, alle specificità intrinseche delle diverse tecnologie;
3. il terzo gruppo è composto dal corpaccione disorientato (è quello con il peso demografico maggiore, pari al 26,5%), cioè dalla porzione di popolazione caratterizzata soprattutto da un certo spaesamento di fronte ai profondi cambiamenti in atto, al punto tale da restare in mezzo al guado tra vecchie e nuove tecnologie, ancora senza un convinto orientamento;
4. gli evoluzionisti costituiscono il quarto gruppo (17,7%): sono gli
internauti acculturati che, pur consapevoli di alcune criticità della rete, ritengono che in prospettiva diventerà il luogo elettivo della conoscenza e della trasmissione del sapere, a discapito dei libri;
5. il quinto gruppo è quello dei residenti digitali (18,1%), pienamente integrati nell’ambiente del web, che riconoscono come un ecosistema oggi indispensabile per alimentare i percorsi personali di costruzione della cultura e per la trasmissione delle conquiste intellettuali.
Per contestualizzare ancora di più la ricerca Censis/Treccani è utile tenere presente alcuni dati che fanno conoscere meglio la realtà della cultura di massa degli italiani.
Una percentuale di laureati ferma e inferiore rispetto all’Europa
In Italia abbiamo un tasso di laureati che, sebbene crescente nel tempo (+4,1% nell’ultimo decennio), è fermo al 15,4% della popolazione in età attiva (15‐64 anni), molto meno della media europea (26,3%), per non parlare dei valori di Paesi come Francia (30,2%), Svezia (33,8%), Regno Unito (36,2%).
Il numero di lettori è stabilmente basso (nell’ultimo anno solo il 42% della popolazione ha letto almeno un libro nel corso dell’anno), e non può essere di conforto il fatto che la quota di “lettori forti” (che hanno letto più di 12 libri l’anno) è pari al 13,7% ed è aumentata di 2,4 punti negli ultimi vent’anni, tanto da poter parlare di una deriva elitaria nella lettura dei libri
Il tasso di scolarizzazione cresce ma la lettura cala
Si registra una fisiologia davvero anomala nel fatto che dall’inizio del secondo decennio degli anni 2000 nel nostro Paese i tassi di scolarizzazione (crescenti nel tempo) e la propensione alla lettura (declinante) stanno ormai seguendo traiettorie divergenti: l’esatto contrario di quanto sarebbe apparso lecito attendersi, cioè un rapporto di proporzionalità diretta tra le due grandezze
Più della metà della popolazione non legge un libro l’anno
Così, la quota di non lettori (neanche un libro l’anno) in Italia è pari
complessivamente al 56,5% della popolazione, resta alta (il 24,1%) anche tra i laureati, corrisponde a quasi la metà dei diplomati (il 48,5%). Gli anziani leggono più libri i giovani meno. Per concludere il quadro, bisogna rimarcare che negli ultimi dieci anni si è
allargata la forbice generazionale: mentre le persone più avanti con gli anni leggono di più, in particolare gli ultrasessantenni (+7,2% tra i 60‐64enni nel periodo 2005‐2015 e +8,7% tra i 65‐74enni), tra i giovani la dinamica è di segno opposto (‐3,6% tra i 25‐34enni e ‐4% tra i 35‐44enni)
Le prospettive incerte del mercato librario
Non stupisce, quindi, che i ricavi del mercato librario siano stati in flessione negli ultimi anni: ‐10,8% di fatturato in un triennio, tra il 2010 e il 2013. Poi ancora ‐3,6% nel 2014, con una perdita di 97,5 milioni di euro di ricavi e un bilancio complessivo poco inferiore a 2,6 miliardi di euro, una riduzione del numero di titoli pubblicati del 3,5% e di copie cartacee vendute del 6,4%. Infine, i primi dati provvisori relativi al 2015 segnalano una inversione di tendenza per il mercato dei libri di carta, con un +0,7% rispetto all’anno precedente in valore, sebbene permanga un ‐2,1% rispetto
al 2014 in termini di copie vendute.
E si noti che l’orientamento prevalente è verso la pubblicazione di prime edizioni, sia in termini di nuovi titoli, sia in termini di copie stampate, a indicare i contorni di un mercato librario che si consuma in fretta, orientato prevalentemente alla conquista dei lettori attraverso il lancio di novità editoriali, piuttosto che per mezzo della riedizione di classici o di titoli incatalogo.
Data la situazione, molti editori sono stati costretti a cessare l’attività. Negli ultimi quindici anni, sono più di un migliaio quelli che hanno liquidato le aziende: nel 2000 erano 3.300 gli editori attivi, ridottisi a 2.248 nel 2013 (‐31,9%); i nuovi editori erano 310 nel 2000, sono scesi a 62 nel 2013; 286 case editrici hanno cessato l’attività nel 2012 e altre 102 nel 2013 (ultimi dati ufficiali disponibili)