Una delibera della Giunta del Comune di Napoli (446/2016) mette a sistema la sperimentazione iniziata da tempo sull’uso degli spazi comunali a fini sociali. Il provvedimento si configura come un vero e proprio manifesto, teorico e pratico, sul significato della categoria “beni comuni” e su come essa possa divenire realtà operativa. Il documento è strutturato in tre sezini. Nella prima vengono affrontate le questioni generali d’ordine giuridico-costituzionale; nella seconda si chiarisce cosa debba intendersi per “valorizzazione” dei beni di proprietà comunale e per “reddito civico”. La terza parte definisce metodologie e procedure mediante le quali individuare i “soggetti organizzativi” sulla base di “progetti d’uso temporaneo”, partecipati e costitutivi “comunità civiche urbane”.
Come noto, negli ultimi anni l’amministrazione De Magistris ha individuato una costellazione di edifici, alcuni di grandissima rilevanza storica, e li ha dichiarati “di uso civico e collettivo urbano” affidandoli alla gestione diretta di quelle comunità di abitanti che si sono fatte carico della gestione di tali beni attraverso progetti pilota di riuso e rigenerazione. Si tratta di spazi abbandonati o male utilizzati (ex carcere minorile Filangieri – ora Scugnizzo liberato, ex scuola Schipa, villa Medusa ed ex Lido Pola a Bagnoli, ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Efrano – ora Je so pazzo!, ex convento Teresine – ora Giardino liberato nel rione Materdei), ex convento di Santa Maria della Fede – ora Santa fede liberata, Collettivo 2016). Tali beni sono stati individuati attraverso una “procedura di ricognizione degli spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero dei beni pubblici percepiti dalla comunità come beni comuni e suscettibili di fruizione collettiva”, secondo quanto stabilito da una serie di delibere comunali.
Ora, la nuova delibera del Comune di Napoli indica a tutte le amministrazioni pubbliche la strada da percorrere in materia di beni comuni. C’è da riconoscere che l’amministrazione partenopea ancora le proprie deliberazioni direttamente alla Costituzione. In particolare, si tratta degli articoli 2, 9, 41,42, 43 e 118 ultimo comma riformato, già interpretati dalla Cassazione che in una sentenza del 2011 (la n.3665), in occasione di una infinita disputa che riguardava le valli da pesa della laguna di Venezia. Tale pronuncia afferma che, laddove “un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale (…), detto bene è da ritenersi comune, vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato agli interessi di tutti i cittadini”. E ancora: “I principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione dando origine a una concezione di bene pubblico inteso in senso non solo di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali”. Qualsiasi titolo di proprietà (pubblica o privata) è tutelato dallo Stato e ha ragione d’essere solo se assicura una funzione sociale del bene posseduto. E vi sono beni che per loro intrinseca natura e funzione sono necessari per sostanziare i diritti fondamentali e il libero sviluppo della personalità dei cittadini, per di più in un’ottica intergenerazionale. Con queste premesse il Comune di Napoli (già nel 2011) ha riconosciuto i beni comuni nel suo Statuto: “beni di appartenenza collettiva e sociale, oltre la distinzione pubblico/privato e proprietà/gestione”.
Di qui l’esperienza del Laboratorio Napoli per una Costituente dei beni comuni, finalizzata a stimolare l’elaborazione di proposte e progetti dal basso per la gestione e la valorizzazione dei beni comuni. Non si tratta solo d’immobili, ma anche di aiuole, strade, aree gioco e sportive, orti didattici e urbani, istallazioni artistiche, spazi per l’accoglienza, chiese chiuse al culto e altri luoghi suscettibili di fruizione collettiva a vantaggio della comunità locale. Si formano così gruppi e/o comitati di cittadini di azione locale che esprimono una “manifestazione pubblica d’interesse” sulla base di “progetti pilota” d’uso temporaneo (due anni rinnovabili) capaci di aumentare l’inclusione sociale e di migliorare la qualità della vita urbana. Con ciò, l’amministrazione comunale intende raggiunto l’obiettivo della “valorizzazione” dei beni di proprietà comunale, che “non può essere limitata alla dimensione economica (…) bensì deve intendersi come processo mediante il quale è possibile conferire un maggiore valore sociale al bene, aumentandone il livello di fruizione da parte della collettività”. “In tale quadro, la valorizzazione assume il significato di elaborazione di un programma di trasformazione/qualificazione/conservazione (…) di rigenerazione urbana”. Tutto ciò realizza un “reddito civico”, una redditività sociale sicuramente superiore a quanto può offrire la messa sul mercato dei beni individuati.
Ma ciò che più conta ancora è “la partecipazione dei cittadini nel processo(…) che dovranno definire anche le modalità di gestione dell’uso temporaneo (…) attraverso la costituzione di forme di Comunità civiche urbane”, capaci di dotarsi di norme e regolamenti utili ai fini di una gestione condivisa, aperta e di una programmazione di attività di qualità. I progetti pilota dovranno essere approvati dalla Giunta che provvederà agli interventi necessari di manutenzione e d’agibilità. Valgono in tal senso le parole che De Magistris spese un anno fa in campagna elettorale quando affermò: «Oggi a Napoli c’è un sistema di autogoverno, di autogestione. Se ci sono associazioni, ragazzi, comitati, studenti disoccupati che prendono luoghi abbandonati, che prendono luoghi che sono di nessuno, vuoi di proprietà pubblica – perché non ci sono i soldi – vuoi di proprietà privata abbandonati, io non do l’ordine di sgombero, mi prendo una denuncia, li vado a ringraziare perché stanno liberando la città. È questo l’autogoverno che vogliamo…”.