Contrastare le infiltrazioni mafiose nel sistema degli enti locali è un must cui le istituzioni di ogni segno e grado devono adempiere con il massimo impegno. A volte, però, i risultati non sono all’altezza delle attese. Così, i fenomeni degenerativi e corruttivi delle amministrazioni comunali si riproducono nonostante gli interventi di bonifica. Allora, la domanda è: come ovviare a questo fenomeno e agli inconvenienti connessi che si riverberano sulle comunità di riferimento? Al centro della riflessione su questa delicata problematica è, ad esempio, la normativa sullo scioglimento dei Consigli comunali contaminati dalle organizzazioni criminali, che presenta indubbiamente lacune e criticità. A tal proposito, ripercorrendone la disciplina, gli esperti della materia fanno notare come lo scioglimento rappresenti lo strumento, individuato dal legislatore 27 anni fa, per rimediare a un esercizio del governo locale condizionato dalla criminalità organizzata e a una conseguente precaria erogazione delle funzioni fondamentali assegnate ai Comuni (ma anche alle Province e alle Città metropolitane). Si tratta, in altre parole, di un istituto di carattere squisitamente sanzionatorio, posto a tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività amministrativa locale, attuato con provvedimento comminato dal Governo in presenza di un effettivo fenomeno d’infiltrazione e/o di condizionamento mafioso, tale da arrecare un grave pregiudizio agli interessi collettivi e da determinare la caduta di credibilità istituzionale dell’ente interessato. Nei confronti del provvedimento relativo, tuttavia – ricordano gli esperti – può essere esperita ogni tutela davanti al magistrato amministrativo riferibile alla sua legittimità. Un gravame che ha prodotto sino a oggi 25 accoglimenti, con corrispondenti annullamenti degli scioglimenti disposti. Uno degli aspetti più critici riguarda, la fase successiva allo scioglimento, quando il governo dell’ente passa dagli organi eletti a una commissione straordinaria (art. 144 Tuel), composta da tre membri scelti tra i funzionari dello Stato, in servizio o in quiescenza, e/o tra ex magistrati ordinari o amministrativi. Un organo straordinario deputato a sostituire Sindaci, Giunte e Consigli, assumendone le rispettive competenze per la durata di 12/18 mesi, prorogabili sino a un periodo massimo di due anni. Secondo la vigente disciplina, dunque, lo scioglimento rappresenterebbe l’atto prodromico alla bonifica degli organi e apparati compromessi dall’inquinamento mafioso. Ma questo intervento sostitutivo si è rivelato nei fatti veramente efficace? Dubbi in tal senso – così come emergono da numerose esperienze concrete – riguardano le seguenti funzioni:
1) produzione dell’efficienza istituzionale (spesso da riportare a regime dopo l’accertato periodo di patimento criminale);
2) funzionamento amministrativo;
3) risanamento, qualora occorra, dei bilanci ereditati;
4) «igiene» sociale da concretizzare autenticamente nei rapporti con la collettività di riferimento (di frequente, vessata dal peso della malavita che ha condizionato le relazioni tra la Pa locale e cittadini, mediando ogni loro esigenza);
5) sollecitazione della partecipazione democratica tale da favorire la generazione di una buona classe politica cui affidare successivamente le sorti dell’ente a conclusione del commissariamento.
In termini più espliciti – osservano sempre commentatori ed esperti – l’attuale formulazione prevede un commissariamento fine a se stesso, consistente in un intervento impositivo di normalizzazione burocratica di breve durata, e quindi insufficiente, che non garantisce alcunché in termini di risanamento istituzionale e ambientale. Un compito difficile da realizzarsi – aggiungono – senza la previsione di uno strumento/percorso pedagogico che generi concretamente cultura autenticamente democratica, consapevolezza delle scelte e che riesca a dimostrare ai giovani la pericolosità delle commistioni tra la società civile e il potere mafioso e tra questo e le istituzioni pubbliche.
Il commissariamento, peraltro, è in genere affidato a funzionari dello Stato in trattamento di quiescenza che, ancorché con carriere di primo piano alle loro spalle, hanno perso la dimestichezza ovvero non hanno mai maturato la necessaria esperienza pratica con le problematiche riguardanti l’amministrazione diretta degli enti locali, non ultime quelle riguardanti le difficoltà di bilancio e di risanamento. A partire da queste considerazioni si leva da più parti la richiesta di una riforma complessiva della disciplina dello scioglimento che, superandone il carattere transitorio e carente sotto vari aspetti, punti ad affidare la gestione dell’ente infiltrato a una sorta di “Sindaco della Repubblica”, ossia – spiegano – una specie di «prefetto di scopo» che sia espressione autentica di una Repubblica che tutela se stessa attraverso la cura delle sue istituzioni territoriali. Una figura dotata di un ampio mandato quinquennale in grado di condurre a fondo l’opera di risanamento amministrativo e ambientale, nonché di ripristino delle condizioni ordinarie di gestione ottimizzata della comunità locale, ma anche di risanamento dei rapporti tra cittadini e istituzione comunale e di assoluta vigilanza della collettività amministrata verso il fenomeno mafioso, da esercitarsi da parte della stessa anche successivamente alla scelta elettorale, da affrontare con la dovuta consapevolezza e ragionevolezza. Vedremo se nell’attuale legislatura queste proposte avranno la forza di tradursi in una effettiva legge di riforma.